Esiliato del paradiso, la scrittura diventa un rifugio e una battaglia
Pubblicato in francese per L’oeil de l’exilé
Esiliato dal paradiso. E’ questo il titolo dell’ultimo libro di Jacobo Machover, autore cubano in esilio da oltre cinquant’anni, che ci accompagna, pagina dopo pagina, nel racconto della sua vita di dissidente. Una vita intrecciata al periplo della sua famiglia, ebrea, perseguitata dal nazismo, e alla storia del suo popolo, dei cubani, oppressi e esiliati, come lui. Un viaggio senza ritorno in cui la testimonianza autobiografica diviene il cuore di ciò che Machover stesso chiama una “letteratura d’urgenza”.
Perché la scrittura, spiega l’autore, «diviene un rifugio, un luogo situato lontano dall’isola e molto spesso, dalle grandi case editrici, per sussurrare, insinuare, ciò che a loro [agli esiliati cubani, ndr] non è possibile gridare sulla piazza pubblica, sperando che un giorno queste parole arrivino al loro pubblico naturale, colui che potrà forse farle completamente sue, e che renderà loro un minimo di considerazione e giustizia». […]
Una storia personale che riflette e abbraccia la Storia comune. Esiliato dal paradiso è strutturato in due parti: la prima è intitolato “La fuga, l’iniziazione”, e la seconda, “I nostri, in memoriam”. La narrazione inizia nell’autunno del 1963. “Il bambino (io) appena arrivato a Parigi, alla Gare de l’Est, dopo un lungo viaggio e incomprensibili deviazioni. Ho attraversato un pezzo di storia senza rendermene conto, circondato dai miei genitori, Isacco e Rebecca, e da mio fratello maggiore, Daniel. Eppure sono solo al mondo, senza nessuno a cui confidarmi, senza alcun appiglio a cui aggrapparmi. “Da lì, l’autobiografia di Jacobo Machover si svolgee mescolando alla Storia le peripezie di un giovane inquieto, peraltrodisertore dell’esercito francese e appassionato di donne e della vita. Il racconto continua illustrando, attraverso immagini sparse, il viaggio della famiglia dell’autore e sfocia, infine, nella seconda parte del libro, in un vero e proprio ritratto dell’esilio. “L’esilio è un territorio sconosciuto, dove il vero e proprio centro é quello della memoria”, dice l’autore. La memoria, che diventa il motore dell’opera letteraria di Machover, è coltivata e incisa in questo libro. Il suo scopo, come lo stesso autore esplicita, è “di conquistare la libertà, quella della mia isola, o, almeno, di perpetuare la memoria di coloro che ne sono stati espulsi: gli esuli, come me stesso “. Poiché gli esiliati dell'”isola maledetta”, precisa lo scrittore, non sono proprio come gli altri: “Loro [gli altri esiliati da altri luoghi ndr], sono visti come eroi, che hanno combattuto delle dittature; non come noi cubani che siamo fuggiti dalla rivoluzione. Non c’è bisogno di spiegare nulla. Noi, non siamo legittimi “.
Il dolore dell’esilio, il vero, senza aggettivi: “Non possiamo aggiungere aggettivi a questo dolore, a questa calamità”. L’esilio, “senza speranza di ritorno”, il cui gusto Machover ha “imparato ad amare” grazie alla scrittura e all’impegno . “Ho deciso di seguire il percorso che mi è stato dettato, sempre, credo, da questa Storia delirante, ma unica, quasi incredibile, in ogni caso inspiegabile: scrivere, per non sprofondare nella disperazione, nell’abbandono, nell’indifferenza, nella droga, nell’alcool. Ma senza poter godere della magia e del territorio iniziatico della mia isola, da cui avrei potuto costruire un universo. Ho dovuto recuperare, almeno per ora, il mondo della mia infanzia perduta. ”
Una lotta per il riscatto di Cuba. Pagina dopo pagina, la narrazione di Machover ci accompagna a svelare la coerenza di un percorso erratico che ha per obiettivo la lotta per la legittimità dei dissidenti cubani, per i quali l’autore combatte incessantemente, da sempre: “Per quasi venticinque anni, li ho ascoltati [i dissidenti anticastristi in cerca di protezione all’estero ndr] ripetere le stesse storie. Mi hanno intrattenuto in un universo astratto in cui solo gli eletti hanno accesso. Sono andato a incontrarli ai quattro angoli del mondo, lontano dal paese in cui sono nati, per lo più nella capitale del nostro esilio, una copia quasi esatta dell’isola maledetta, ma più ordinata, troppo impersonale. Non ho contato il tempo, né il mio né il loro “.
Di un esiliato, degli esiliati. Sopravvivere, per vivere. Quanto tempo ancora? «La vita in esilio non è la morte. E’ un’altra cosa, in equilibrio non solo tra due geografie, ma anche tra due tempi. Coloro che sono sfuggiti alla disgrazia sono travolti da una frenesia di vivere […] sono capati ci affrontare tutto per fuggire, ma si ritrovano disarmati davanti ai problemi della quotidianità in un ambiente non ostile, bensì indifferente. Li vedo ancora […] Jesús, ch ha dovuto lasciare l’isola dove aveva forti possibilità di marcire per lunghi anni in prigione, perché aveva tentato semplicemente di scrivere, descrivere, la realtà che viveva in articoli che praticamente nessuno poteva leggere sul posto: era un giornalista indipendente, ovvero senza ostacoli, non riconosciuto, non ufficiale. Ha dovuto partire in aereo, lasciando sua moglie e sua figlia, piangendo incessantemente la loro assenza, senza alcuna speranza di vederle per lungo tempo». Quanto tempo ancora?